Perché maschi e femmine non sono uguali (IV pratica filosofica)

Non è vero che siamo uguali. Maschi e femmine vivono spesso secondo copioni indotti dalla famiglia e dalla cultura, di cui sono totalmente ignari.

Si legge spesso, ovunque, il monito “Diventa ciò che sei”, però non si parla mai di un aspetto importante della questione riguardante l’essere se stessi. Cosa ha comportato per ognuno di noi vivere fin dalla nascita in un corpo maschile o femminile? Quali copioni ci hanno messo in mano al nostro venire al mondo? Cosa ci hanno insegnato di specifico nella nostra vita? Quali ruoli ci suggerivano con le parole, ma anche con gli sguardi, i silenzi e gli esempi agiti? Non è vero che siamo uguali.

© testo di Laura Ferrari

Ovviamente un po’ lo sappiamo, qualcosa lo abbiamo in mente, ma non ne parliamo volentieri e questo orizzonte di senso rimane spesso nascosto anche dove dell’esercizio autobiografico o autoanalitico si fa pratica: forse perché non sta bene, è scomodo, è intimo, ma soprattutto perché può fare tanto male.

Copioni scomodi. Siamo biografie con temi azzittiti

Parlare del “diventare se stessi” come individui evolvibili include necessariamente un ragionamento autentico, nudo e crudo: quali “noi stessi” possiamo anche solo pensare di diventare quando nasciamo dentro dei copioni culturali, sociali e collettivi che, in base al sesso genetico, all’identità di genere ed a chi ci piace (fa sempre bene ricordare che sono tre cose diverse), ci danno delle regole nemmeno troppo sfumate cui adattarci, pena tutta una serie di conflitti e dolori biografici da disallineamento con il senso di appartenenza a comunità umane che vorremmo ci riconoscessero e (magari!) ci amassero.

Anche nelle pratiche filosofiche e negli esercizi pratici che utilizzano l’autobiografia trovo ci sia spesso la tendenza a dare per scontato che siamo tutti uguali come punto di partenza, come se il foglio bianco su cui scriviamo fosse il medesimo per tutti.

La cornice invece è parecchio diversa per mille motivi ed anche solo perché siamo corpo, siamo nati corpo e siamo maschi e femmine come dato biologico, sociale e storico: poi abbiamo definito con più o meno fatica, in base al contesto ed alle narrazioni in cui siamo capitati, una identità di genere nel corso degli anni (sentirsi più maschi o più femmine) e abbiamo capito chi ci piaceva e poi abbiamo definito se e come volevamo mettere in opera questa connessione con un altro essere umano attraente ecc.

Questi movimenti a ogni bivio, queste differenze a partire dalla nostra nascita fisica sembra restino silenziose in sottofondo. Abbiamo una grande quantità di cicatrici derivanti dalla difficoltà di questi passaggi della vita. Quello che siamo oggi non è uguale se siamo maschi e femmine. I compromessi con cui siamo dovut* scendere. Gli addestramenti/addomesticamenti cui siamo stati forzati per esser accettabili o per esser amabili.

Non parliamo esattamente delle stesse storie. Apparteniamo spesso a miti diversi. La nostra storia è incarnata da subito, molto relativa, almeno ai blocchi di partenza, la libertà d’auto-individuazione.

I “buoni” e i “cattivi”? Sì, dentro al copione

Questo tema potrebbe emergere da pratiche di riposizionamento.

Quelle utili a diventare consapevoli che non siamo un’isola. Che siamo dentro la storia di altri, di un gruppo, fin dall’inizio. Che veniamo al mondo (o gettati nel mondo, a seconda di come ci sembra l’idea, se ci sentiamo più soggetti o oggetti, forse) l’idea di essere, come individui, atomi isolati è sostanzialmente farlocca. Utile ricordare che veniamo al mondo dentro una storia altrui e che ne prendiamo la forma. La forma delle narrazioni sul maschile e il femminile di una certa cultura, in un certo paese sul pianeta, in un certo momento storico.

Alcuni esempi di copione da maschi e femmine? Blu e rosa, ok. Vivacità fisica/violenza vs ponderatezza/dolcezza. Urlare è da uomini (forti e volitivi), comandare è da uomini (razionali e decisi). La tenerezza e la cura sono da donne (sensibili e inclusive), la cura della bellezza fisica è da donne (piume e penne colorate per le dolci danze d’accoppiamento). Inverti i fattori? La donna che urla è isterica e debole, la donna che comanda non è più donna perché non accudisce amorosa; il maschio che si prende cura o che non ha voglia di giocare alla guerra ha qualche cosa che non va e pagherà anche lui, eccome. Abbiamo sentito anche tante ipotesi evoluzionistiche (la donna raccoglitrice – quindi multitasking – e l’uomo cacciatore – quindi visione-tunnel, e predatoria). Fermiamoci un attimo.

Abbandonare il copione maschile e femminile è possibile su scala storica con un grande lavoro di scarto di prospettiva ed educativo, ma vediamo che a partire dall’individu* stess*, che ci riflette, in realtà non è davvero sempre desiderabile.

Come in tutti i fenomeni umani, il rischio è nell’unilateralità, la tetragona base sui cui s’edificano le ideologie: tutti i maschi cattivi di là, tutte le femmine buone di qua. Attenzione: i dati di cronaca, quante donne ammazzate, quante donne devastate da diverse forme di violenza fisica (quella psichica c’è ma si vede di meno) sono oggettivi come fenomeni numerici ma emergenti da un movimento sottostante, basso, vischioso, collettivo (intessuto innanzitutto nei copioni familiari, intimi) che ci vede tutt* non solo interconnessi ma anche tutti corresponsabili con il nostro ruolo attoriale nelle nostre cerchie personali, anche se in misura diversa.

Sul palco mettiamo in scena un dramma dal titolo: “Res, “Cose” “Oggetti”, non persone”.

“Li definiamo, quindi, “reati di genere” […] in parte perché sono motivati da un problema culturale che l’uomo ha sviluppato, di predominio e di dominio della donna intesa come ‘res’. Ma anche perché la statistica ci parla del fenomeno, in quanto nessun tipo di reato ha come persone offese, come vittime accertate, il 90% di genere femminile”.

Rivedere il copione allo specchio

Ecco la riflessione scomoda che irrompe sul nostro palcoscenico unilaterale, dove anche io per anni ho messo in scena la mia rabbia e la mia ribellione. Avevo in mente chi era il nemico e il resto del mondo, quindi, era mio alleato. Invece no.

“Per non dimenticare quella strage quasi quotidiana che avviene nelle case e nei rapporti più intimi: femminicidi, violenza manifesta e violenza invisibile contro le donne e come intimidazione rispetto alle libertà che stanno finalmente conquistando. Sessismo e razzismo sono strettamente legati, la paura e l’odio per il diverso cominciano dal rapporto tra i sessi, che arriva più lentamente alla coscienza storica solo perché “naturalizzato“, e reso perciò invisibile e immodificabile. […] Anziché limitarsi a deprecare la violenza, invocando pene più severe per gli aggressori, più tutela per le vittime, forse sarebbe più sensato gettare uno sguardo là dove non vorremmo vederla comparire, in quelle zone della vita personale che hanno a che fare con gli affetti più intimi, con tutto ciò che ci è più famigliare, ma non per questo più conosciuto”

Anche se parliamo molto, e sempre di più, di violenza del maschile sul femminile, ho avuto modo di vedere le mistificazioni del femminile dietro a questo. Sulla genesi continuamente rinnovata, generazione dopo generazione, del potere del (di un ) “femminile” nel privato, armato nel potente e spietato ruolo materno che può essere l’altra faccia privata del potere maschile nel pubblico trovo molto interessante, e scomoda, Laura Pigozzi. Soprattutto dove il femminile stesso pare spesso il maggiore detrattore del copione che lo vuole, nella dimensione privata, potente custode della casa e del focolare, tesoriere dell’amore e degli affetti, della cura per tutta la vita di bambini, vecchi e maschi adulti in ottima salute – come scrive in modo chiaro Lea Melandri andando a braccetto con le voci (lucide ma certo non contente, anzi spesso ferite e dolenti) di Sibillla Aleramo (consiglio la lettura di “Una donna”, edito nel 1906, l’ho trovato in biblioteca tranquillamente) o di Virginia Woolf.

“A uccidere, violentare, sottomettere, sono prevalentemente mariti, figli, padri, amanti incapaci di tollerare pareti domestiche troppo o troppo poco protettive, abbracci assillanti o abbandoni che lasciano scoperte fragilità maschili insospettate. Nessuno sembra trovare inquietante che il corpo su cui l’uomo si accanisce sia quello che gli ha dato la vita, le prime cure, le prime sollecitazioni sessuali, un corpo che l’uomo ritrova nella vita amorosa adulta e con cui sogna di rivivere l’originaria appartenenza intima a un altro essere.

Ma è anche il corpo che lo ha tenuto in sua balìa nel momento della maggiore dipendenza e inermità, che poteva dargli la vita o la morte, accudimento o abbandono. Confinando la donna nel ruolo di madre, facendola custode della casa, dell’infanzia, della sessualità, l’uomo ha costretto anche se stesso a restare eterno bambino, a portare una maschera di virilità sempre minacciata.

La famiglia prolunga l’infanzia ben oltre il bisogno del singolo individuo, costruisce legami di indispensabilità reciproca e arma silenziosamente la mano che tenterà di strapparli. Il luogo che tutti vorremmo al riparo di una società sempre più conflittuale conserva il più lungo e il più enigmatico dei domini che la storia ha conosciuto: la guerra mai dichiarata che porta l’uomo, mosso da desideri e paure antiche, a celebrare i suoi trionfi sul corpo femminile con cui è stato tutt’uno e con cui torna a confondersi nell’abbraccio amoroso. Se l’uomo fosse solo il dominatore, il vincitore sicuro di sé, non avrebbe bisogno di umiliare e uccidere. Confinando la donna nel ruolo di madre, è come se le avesse permesso di protrarre ben oltre l’infanzia quel potere materiale e psicologico che ha esercitato su di lui bambino. Il potere che viene dal rendersi indispensabile all’altro è tuttora, per la donna, il più forte contrappeso alla sua mancata realizzazione come individuo, cittadina a tutti gli effetti.” [“Amore e violenza”, Bollati Boringhieri 2011]

Ma no dai, che brutto. Ma no dai, che fatica

Come non percepire subito la fatica, la pesantezza di questi temi? Eppure non basta parlarne: ne va fatta pratica.

Parliamo piuttosto di filosofie e di identità, o di desiderio ed amore, facendo finta di essere tutti nello stesso copione, di esser tutti uguali nel nostro poterci sviluppare liberamente come individui, amandoci liberamente. Non è più bello così? Giochiamo che eravamo uguali e che ci potevamo incontrare davvero conoscendoci come persone prima che come ruoli? Perché non poter lavorare su di un nitido, pulito umanesimo senza differenze?

Risposta: perché non esiste. Non esiste una storia che non sia inscritta nel copione di sesso-genere-eros e che da questo non sia connotata. E come scrive la Melandri, purtroppo, le tensioni tra i sessi sono innanzitutto tensioni di potere; difatti scrive della “mestizia” nel veder cadere le maschere dei propri “sogni d’amore” che erano tanto bellini quando ce li iniettavano in vena da bambine facendoci credere molte cose avvincenti al riguardo, dalle fiabe alla TV.

G. Jung scrive che “Piuttosto che mettersi a confronto con i propri lati oscuri, si preferisce accontentarsi dell’illusione della propria rettitudine morale”: sapere bene cosa va fatto, sapere tutto di sé e degli altri. I grandi copioni già bell’e fatti sono costruiti apposta per farci smettere di pensare.

Il tremendo rischio di uscire dai copioni

Il tema della biografia incarnata e sessuata attraverso scarti, bivi e guerre apre a prospettive educative (dai giovani agli adulti, dove ancora si può) ed a ripercussioni politiche, perché quello che c’è in gioco è il potere e il controllo verticale organizzato per gerarchie.

Nell’aprirsi della dimensione educativa, una voce come quella di Paolo Mottana ci scuote abbastanza da non farci ripiegare in una comfort-zone di ripiego appena ci sentiamo un po’ a disagio, nel copione degli adulti-che-sanno-tutto (uno dei vantaggi di essere diventati adulti è che noi ora sappiamo come vanno le cose…. no?):

“E la vecchia antitesi è quella tra corpo e mente, ancora una volta. E, ovviamente, rafforzata ed elogiata, è sempre la mente. Dunque impariamo i sentimenti, ragioniamo sui sentimenti, denominiamo i sentimenti. Il che intendiamoci non è di per sé una cosa cattiva (a meno che non prenda la forma positiva dell’intelligenza emotiva à la Goleman) ma ancora una volta resta monca e soprattutto gerarchizzata all’inverso.

Quante volte occorrerà ripetere che non c’è pensiero senza corpo, che non ci sarebbe mente senza carne e che non c’è sentimento senza emozione, senza percezione e senza sensazione. Quante volte occorrerà dimostrare che i nostri pensieri nascono nel corpo e che non avremmo certe filosofie o certe poesie senza i corpi specifici di Kant o di Nietzsche o di Sylvia Plath e di Rilke e i loro peculiari vissuti? Così come non avremmo la musica suonata da Glenn Gould senza il corpo e l’apparato nervoso di Glenn Gould o il tennis di McEnroe senza il corpo e i nervi di McEnroe?

Non ci sono emozioni se non sessuate, non c’è sentimento se non sessuato, incarnato, a partire dal corpo. Non c’è e non ci potrà mai essere un’autentica educazione senza un’educazione del corpo, senza un’immersione profonda nel corpo, senza un riconoscimento del “proprio” corpo, della sua singolarità, delle sue zone, del suo specifico piano di consistenza, su cui gli eventi vitali scorrono, si fermano, sostano, producono effetti, in maniera del tutto irriducibile a quelli di chiunque altro. E poi si traducono in sentimenti, in pensieri, in opere persino […]”.

Non per nulla nelle tradizioni che spaccano in due il mondo, quelle dicotomiche, la testa è maschile (Logos) e il corpo, la fisicità, la materia, la terra sono femminili (Chora). Ovviamente la parte razionale e sapiente del creato deve dominare la materiale e la parte irriflessa affinché soltanto obbedisca e faccia il suo lavoro, materia muta, per fini stabiliti dalla regia.

Ci sono molte altre voci da ascoltare per piste educative in questa dimensione, per e. a Milano, sia a scuola che all’università.

Ma perché tanto aggrovigliarsi? Ma di quale identità parliamo? In fondo si definisce tutto per Natura, no?

…No.

“… Il fatto è che la sessualità naturale non esiste e che, per quanto siamo indotti a pensarla come una questione privata e istintuale, essa è in realtà intrinsecamente culturale e politica, come ha spiegato bene Michel Focault”, sintetizza in un suo articolo l’analista filosofo e insegnante Moreno Montanari su La Repubblica il 9 gennaio 2019. “Basta considerare il diverso modo in cui ciascuno di noi la vive nel corso degli anni, nelle diverse relazioni a cui ha dato vita, per osservare come la propria personale concezione delle identità sessuali altre cambi. Lo spiega bene Vittorio Lingiardi: la nostra sessualità e i nostro genere sono costruzioni evolutive e relazioni: contemporaneamente biologiche e sociali, creative e difensive; sono il risultato di predisposizioni genetiche e ormonali ma anche di aspettative familiari e pressioni sociali […]”.

Anche in questo caso, si tratta di cultura, e quindi di umanità che decide, e dietro la decisione c’è forse un pensiero insieme ad una emozione non troppo chiara. Su pensieri ed emozioni si può lavorare per trasformazioni che prevengano le brutture dei copioni verticali. Oppure per consapevolezze a posteriori. Qualcosa cambia comunque.

Essere se stessi? Diventare se stessi? Come faccio dentro al copione?

Se sono fortunat*, il copione mi piace. Sorte paracula, mi sento a mio agio nei ruoli che mi sono stati assegnati in base al mio sesso genetico e alle mie preferenze nonché alle mie scelte esistenziali, di comportamento e quindi di testimonianza davanti a un collettivo il cui pensiero forte, serenamente, confermo, ogni giorno della mia vita in scioltezza e autoconferma. Per molte persone rimane invece la sensazione, non peregrina, che qualcosa nei copioni sia una enorme fregatura, sia che io sia donna, sia che io sia uomo. Il mio campo è automaticamente limitato da definizioni eteronome che sento di subire. Il linguaggio della scienza è linguaggio del potere. Il potere è esercitato dal pensiero forte, che ti dice (nel campo dell’umano e dell’etica, non della fisica, per esempio) come le cose devono essere.

Il modello teorico (ideologico) schiaccia l’esperienza vivente, che si deve adattare al copione. Chi si è sentit* così alzi la mano.

I copioni sono storicamente dati: io cosa ci posso fare?

Personalmente non mi piace il termine femminismo ma alcune delle cose migliori che leggo su queste mistificazioni, quelle che consentono di aprire gli occhi rispetto a montagne centenarie di balle, sono sotto questa etichetta e quindi devo procederci; in realtà credo che potrebbe essere un movimento di ripensamento-rinascita degli individui, femmine e maschi, e quindi una sorta di umanesimo che però parte dalla riflessione-reazione di una delle polarità, perché c’è un utile che ci trascende e di cui siamo pedine; e perché il movimento di cambiamento forse negli ultimi decenni viene fuori da quella parte degli esseri umani che è politicamente, storicamente, statisticamente più oppressa e manipolata, sia su scala individuale, familiare, nel focolare, sia su scala collettiva, sociale, politica, lavorativa ecc. perché ovviamente le due dimensioni sono interconnesse.

Molto meglio lo spiega in questa intervista l’antropologa Rita Segato.

l”[…] ’obiettivo è cambiare il mondo, l’ordine politico patriarcale, un ordinamento sociale che non fa bene a nessuno, né alle donne né agli uomini. Stiamo chiedendo agli uomini di spostarsi, di smarcarsi, di smontare il mandato di mascolinità.

Molti lo stanno facendo, lo vedo e ci credo, proprio perché percepiscono che quel mandato li uccide per primi, li ammala per primi, e che finiscono per essere vittime inconsapevoli di questo ordine corporativo, crudele e autoritario, che impera all’interno della corporazione maschile.

Dentro questa corporazione, come in ogni corporazione, vi sono uomini che sono più uomini di altri, e uomini che sono meno uomini, è quindi una corporazione gerarchica e maligna, che costringe a dare prove di narcisismo e di crudeltà in ogni momento.

[…] Il femminismo non può e non deve costruire gli uomini come nemici “naturali”. Il nemico resta l’ordine patriarcale, che a volte può essere incarnato anche da donne”.

Lavoro individuale su di sé come prima responsabilità sociale (anche qui)

Sembra che non resti niente in piedi. Eppure entriamo in una pratica autobiografica per lavorare su noi stessi sperando di non soffrire troppo. Questi temi fanno male. Si riparte, come spesso accade, dalle ceneri. Sono dispost* a partire dallo smantellamento del mare di mistificazioni in cui sono stato allevato e alimentato? Se fa troppo male, c’è il tramite analogico. Il “mezzo” simbolico e mitologico è sempre molto ricco per quelle persone che si sentono attratte dal lavoro sui propri lati non etichettabili e non dicibili: tranquilli, ci si può avvicinare alla ricerca in modo mediato, perché proprio quelli lati di noi così terribili, orrendi o dolenti sono quelli da sempre ben raccontati dalle grandi narrazioni dell’umanità.

Prima di metterci alla gogna, facciamoci raccontare una storia. Le storie fanno molto bene. Poi dialogandoci, con queste storie, anche qualcosa di noi troverà la sua voce.

Il (mio) mito dell’Androgino (sogno alchemico di fusione e di fine delle differenze e della guerra). Oppure, platonicamente, di ritorno ad una delle origini: l’indifferenziato. Gli archetipi di Animus e Anima, strutture di senso che tracciano piste che portano alle radici stesse delle mistificazioni di genere.

I miti di guerre, invece. I miti di guerrieri, armi, sangue, dei e titali, oppure anche Eros stesso. Alla base della relazione tra uomo e donna c’è violenza. Guggenbühl-Craig la chiama violenza eroticaEros. Svolazzante cherubino, morbido bambino cicciottino? Oppure forza violenta che possiede e sembra bella e tenera proprio per avvincere e quando te ne accorgi sei fregat*. In mitologia è rappresentato con arco e frecce. Il dio greco deve ferire e colpire per essere efficace. A ognuno il suo mito…

 

Esercizi per maschi e femmine, cioè per tutt*:

*fare un disegno per una delle persone che ci hanno forzato in un ruolo maschile/femminile che non volevamo, e farle/fargli capire che stiamo passando oltre (senza assumere toni rancorosi o violenti, lasciando andare);

*scrivere una lettera al se stess* che pensiamo sia stato ferit*, menomat* e azzittit* dall’infanzia in poi, e poi rilassarsi, svuotare la mente e lasciare che arrivi la sua risposta: scriverla su di una carta grossa, a mano.

* cosa faccio io tuttora, anche non volendo, che avvalla i copioni e li conferma anche nel piccolo;

*farsi un regalo, ciononostante, per il fatto di esser sopravvissut* restando brave persone. Forse.

Data di pubblicazione: 20 December 2022

Psicologia

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